lunedì 8 dicembre 2025

Letizia Battaglia : la verità di uno sguardo ( ai Musei san Domenico, Forlì)


















Chi ha in mano una macchina fotografica ha un mezzo potente e meraviglioso per esistere, per essere, per incontrare il mondo. E ha anche una grande responsabilità”.”La fotografia diventa o, meglio, è la vita raccontata” afferma Letizia Battaglia e in tale binomio imprescindibile tra il mondo e  il suo modo di diventare immagine_ significante, intuitiva, poetica_  vive oggi più che mai tutta la sua opera fotografica visitabile in retrospettiva fino al prossimo 11 gennaio al Museo san Domenico di Forlì. Un percorso creativo visto in molteplici sfaccettature dagli esordi ai primi anni duemila  ma sempre e comunque legato dal filo rosso dell’impegno civile imprescindibile dal suo lavoro artistico.











Negli esordi a Milano agli inizi degli anni ’70 Battaglia entra nel dibattito culturale dell’epoca realizzando reportage sull’evoluzione dei costumi italiani. Immortali restano di quest’epoca alcuni primi piani su Pasolini alla Palazzina Liberty di Milano insieme ad altri intellettuali e artisti noti di cui trapela l’intensità di un volto segnato dal dolore e dall’ardore dell’esistenza, pregnante di idee, intellettualità e poesia, designandosi iconico nella memoria collettiva. A partire dal 1974 la fotografa torna definitivamente nella sua terra d’origine, la Sicilia che diviene a Palermo fonte prima di ispirazione e imprescindibile necessità documentaria, in definitiva soggetto esclusivo per la sua fotografia. Battaglia inizia la sua storica collaborazione con il quotidiano  “L’ora” da un lato schierandosi politicamente attraverso la denuncia e la lotta contro la mafia nel territorio, dall’altro documentando la realtà sociale delle classi più indigenti. Un’immagine poliedrica e sfaccettata di Palermo ne emerge, messa a nudo nei suoi reconditi di violenza, illegalità e miseria come d’altronde intrisa di bellezza e poeticità nei suoi volti, luoghi, e scorci di vita che solo un’artista visceralmente legata alla propria terra avrebbe potuto restituire.    

Palermo

Negli anni ‘70 quando ho cominciato a lavorare come fotografa volevo raccontare la mia città, Palermo e le sue contraddizioni, in particolare il divario di classe tra i ricchi e i poveri. Non mi sentivo ne pensavo di essere un’artista, facevo fotografie per mantenermi e fermare in immagini quello che mi suscitava rabbia, pietà, amore e bellezza,”




La città in Battaglia vive attraverso la fotografia, pulsa di vita propria negli scatti sorpresi in strada di volti limpidi e meravigliosi ma incarna, anche, nel reportage di denuncia sociale le miserrime condizioni di vita in cui verteva la frangia ultima del sottoproletariato urbano. In un’immagine simbolica un gatto e un topo sono immortalati alla stessa stregua per strada, sazi vicino ai rifiuti lasciati nei cassonetti: né vincitori né vinti, tutti vittime della stessa corruzione politica e sociale in un’immagine fortemente critica e oppositiva al potere. Le fotografie in bianco e nero mostrano con taglio incisivo abitazioni fatiscenti, una stanza senza acqua né luce dove vivono una madre e i suoi sette figli, un neonato morsicato da un ratto mentre dormiva insieme ai fratelli, infine una bambina al lavoro come lavapiatti in una trattoria. Da un altro punto di vista, la sincerità delle immagini in bianco e nero dallo stile nitido, puro e definito di ispirazione quasi neorealista_ una bambina sorpresa a mangiare un pezzetto di pane  appena acquistato nel rione Kalsa di Palermo_ rivela attraverso il suo volto una  grazia e bellezza inattese al cuore di un mondo senza speranza e senza voce. Un gesto dalla poeticità innata che sublima forse quel reale dalla sua effettiva condizione di nefandezza e miseria.  










La mafia
Un vetro del cruscotto di un’auto infranto da una pallottola di cui resta solo il foro insieme a una miriade di minuscole schegge infrante che si propagano da quel punto iniziale dove il proiettile ha colpito la vettura. Tale immagine fortemente simbolica (

Palermo, 1977)apre la sezione fotografica  incentrate sul tema della mafia in Sicilia. A partire dalla metà degli anni ’70 Battaglia inizia la sua storica collaborazione con il quotidiano “L’ora” documentando in un lavoro di reportage quotidiano_ unica donna reporter n quel contesto prettamente maschile_  i crimini che si  susseguono in maniera violenta e tragica per più di un decennio tra Palermo e il resto della Sicilia nella più totale assenza di uno stato forte o di Istituzioni che non fossero colluse con la medesima. Come scrive Battaglia: “Tutto è precipitato, è iniziata la guerra civile: da un lato giudici, polizia e popolo onesto, dall’altro i mafiosi con le loro armi micidiali”(…) Ho iniziato a fotografare questa carneficina con una modesta camera, fotografavo i mafiosi e le vittime con il cuore in tumulto, con un’angoscia che negli anni è diventata disperazione.”.





In quegli anni Battaglia fotografa omicidi di personaggi noti come di perfetti sconosciuti eseguiti per mano mafiosa,  tra gli altri l’uccisione di Boris Giuliani capo della squadra mobile di Palermo quello di Piersanti Mattarella (1980) trovato assassinato nella propria auto di fronte alla moglie e ai figli e lì soccorso dal fratello Sergio, infine l’omicidio dell’attivista politico Peppino Impastato. Fotografa quelle morti avvicinandosi il più possibile alla scena con un taglio incisivo, netto, estraniante rispetto al soggetto esasperando i contrasti tra luci e ombre come se non ci fosse spazio per altro commento o compianto se non la necessità di denunciare, esporre, rendere palesi i crimini perpetuati, le vittime innocenti, i politici collusi, i giudici a rischio della propria incolumità, infine i personaggi integerrimi che perderanno la vita come il generale Dalla Chiesa.  La morte è mostrata nelle foto di Battaglia come parte del quotidiano in quella Palermo insozzata, bagnata dal sangue di infiniti delitti in un sistema di esecuzioni e vendette, di mandati e mandanti, tra le linee più banali della vita per strada come nelle aule di Giustizia o nei tribunali.   Una per tutte spicca l’immagine del giudice Falcone al funerali del Generale Dalla Chiesa(  1982): lui camminando in primo piano con il vento in faccia sullo sfondo delle forze dell’ordine e dell’esercito schierati a commemorare Dalla Chiesa nella gravità tragica del momento forse già presentendo, sulla scia dell’amico, l’ombra di un destino comune.  












Tra le  pagine più oscure e sanguinose della storia italiana Battaglia ci lascia sprofondare attraverso il suo obbiettivo  come precipitando dentro un buco nero e senza fondo; fino all’inizio degli anni ’80 nel suo integerrimo e rigoroso lavoro di messa a nudo fotografica continua a documentare la lotta per il potere tra i due più potenti clan di “Cosa Nostra” cui segue l’avvio di maxi-processi fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio con le tragiche morti di Falcone e Borsellino. E’ allora che Battaglia sospende temporaneamente la sua attività di reporter stremata dalla violenza e dall’omertà della propria terra.

Ritratti, anni ‘80

 Ho usato la fotografia come mezzo non solo per documentare ma per restituire forza ai più deboli, soprattutto alle vittime, agli emarginati, a quelli considerati “matti”, agli ammalati di solitudine in cerca di ascolto. Era come se ogni volta fotografassi me stessa, in ogni fotografia ci sono, da qualche parte, anche io”.

Palermo per Letizia Battaglia diviene un universo a tutto tondo nelle sue contrastanti e inconciliabili sfaccettature, dove si intrecciano l’attualità raccontata attraverso la macchina fotografica e la vita stessa: “i morti ammazzati, le vittime e le loro famiglie” così come “le bambine dagli occhi gravi e sognanti”. Il reportage, afferma Battaglia, non implica la necessità di andare altrove quanto quella di “scavare, andare a fondo, cercare il nucleo segreto delle persone, delle cose nel luogo in cui vivi” perché non è il soggetto scelto ma la forza di uno sguardo a rendere grande la fotografia, così come “la voglia di onorare il mondo e raccontarlo”.  

Nella sezione “ritratti” a Palermo negli anni ‘80  è “l’incanto dell’infanzia” ma anche  le sue crepe di tristezza o inquietudine lì tra le linee celate; la povertà e insieme “l’arroganza della ricchezza”, nelle classi più agiate, infine i volti di bambini e ragazzi nei quartieri popolari. Sono scene di svago e momenti di gioia sulle spiagge vicino a Palermo o primi piani di volti in strada in controcanto allo spargimento di sangue dei delitti mafiosi. Sullo sfondo di abitazioni fatiscenti emergono scorci colmi di leggerezza: una famiglia in vespa, bimbi semi-nudi nei viottoli del rione Kalsa, volti limpidi e meravigliosi di bambine e altri ancora a rischio di vita simulando con armi giocattolo una gang malavitosa nei quartieri popolari di Palermo. Indimenticabile nella memoria collettiva  resta indelebile l’immagine de “la bambina con il pallone”( 1980).  in quel primo piano sul suo volto “ indomabile e selvaggio” ritratto per caso a Monreale la fotografa rivede forse sé stessa, “ la bellezza e il coraggio della bambina che ero” ribelle e gioiosa, soave e seriosa insieme che ancora a distanza di anni “insegue i suoi sogni malgrado tutto”, lì sorpresa in un bianco e nero perfetto ed essenziale, spogliato di ogni superfluo.    

Rosaria Schifano



“La fotografia da sola,purtroppo, non ha il potere di cambiare il mondo, ma come un buon libro può contribuire a far luce nelle coscienze delle persone. Di lì può partire il cambiamento”. 

Con la macchina fotografica ma anche con l’attivismo politico e civile e l’impegno editoriale Battaglia ha perseguito tutta la vita la lotta e la denuncia contro il sistema mafioso in Sicilia attraverso una poetica ispirata dalla vita che si rivela all’obbiettivo nella sua bellezza inconfutabile nonostante la miseria o l’orrore, con il coraggio, infine, di difendere i propri ideali nella piena libertà personale .  L’immagine scelta per chiudere il percorso espositivo incarna perfettamente tale visione: il ritratto di Rosaria Schifani vedova dell’agente di scorta Vito in primo piano in controluce a una finestra che ne illumina a metà il volto lasciando l’altra metà nella più totale oscurità; una foto scattata a pochi giorni dall’omicidio del giudice Falcone e di tutta la sua scorta. Luce e ombra, vita e morte lì sul suo volto come due metà perfette e imprescindibili, lei con gli occhi chiusi  in una sorta di tragica e muta contemplazione. Battaglia cerca l’essenziale per arrivare a raccontare “ il dolore delle donne”, ciò che di più tragico e irreparabile accade come il momento della perdita lasciando parlare il contrasto netto tra luce e ombra come la lotta tra  vita e morte sul suo volto figurate. Ancora una volta l’immagine in Battaglia coincide con la vita e contiene in sé stessa un mondo, una narrazione, una poesia. 




mercoledì 15 ottobre 2025

MATTIA MORENI: “dalla formazione alla mutazione ” ( ex convento di san Francesco, Bagnacavallo)






















All’inizio del percorso è un melo verdeggiante visto su una tela enorme che occupa tutta la superficie di una parete in mattoni a vista e s’apre in cima a un’enorme scalinata in marmo; la mostra prosegue poi da un corridoio centrale in salette laterali dall’intonaco scrostato e varchi o fessure sulle pareti grezze nell’antico convento di San Francesco a Bagnacavallo volutamente scelto per ospitare l’opera di uno degli artisti più originali del novecento italiano: Mattia Moreni. 

Fino alla fine del prossimo gennaio, infatti, in tale spazio inusuale all’apparenza disertato, lasciato al decadimento della sua forma originale di “luogo religioso”  ma irradiato di una luce naturale, soffusa che lo attraversa come una scia luminosa da lato a lato è visitabile la prima parte del percorso espositivo dedicato a Mattia Moreni: “Dagli esordi ai cartelli”. Il progetto proseguirà itinerante con altre quattro mostre fino alla conclusione del ciclo espositivo a Maggio 2026 per celebra la poetica del pittore dagli inizi all’apice della carriera in particolare nel suo legame unico e profondo con la terra romagnola.

“Un melo”(1964) dunque si erge all’inizio del percorso immenso nelle tonalità verdi e azzurre sulla parete centrale della galleria. Così lo vede Moreni, portato quasi alla deformazione espressionista nell’uso esacerbato del colore in poche linee essenziali eppure vitali, sospinto dal vento che  come ondata lo travolge e lo assimila al suolo verdeggiante ma anche, lo trasforma in un’entità vivente, innata nel movimento, antropomorfa quasi. Lo sfondo del cielo è ugualmente soggetto a tale immersione profonda in un blu espressivo, intenso e anti-naturalistico.


La fase espressionista: “Autoritratto” (1946)


Verde e rosso i colori sulla tela, la figura appare deformata, squadrata e ingigantita di fronte ai nostri occhi come ci trovassimo dentro “a un racconto fantastico” o nella cosmogonia di un mondo aspro e favoloso dalle qualità tipicamente espressioniste. Tuttavia, al di là della dissimulazione del corpo reso in dimensioni innaturali ed esasperate lo sguardo irrompe piangente, genuino e malinconico facendo risuonare sottile e oscura una qualche voce dell’anima. Emerge chiaramente nel Moreni di questo periodo la vivacità della stagione giovanile nelle sue molteplici sperimentazioni che lo porta di lì a poco ad avvicinarsi al cosiddetto “movimento dell’astratto/concreto” lasciandosi alle spalle l’espressionismo per entrare tangenzialmente a far parte  del “Gruppo degli Otto” esponenti dell’Informale italiano definito dal critico Lionello Venturi.

L’Astratto-geometrico : “Canale Candiano “(1953)


In questa fase di formalismo astratto è l’analisi o meglio “la disposizione mentale del segno” che domina sulla tela distillando qualche porzione di realtà per trarne un reticolo astratto-geometrico. Tuttavia, nella visione del “Canale Candiano” del 1953 l’atmosfera crepuscolare del mare con le sue reti e battelli dei pescatori trapela oltre la griglia geometrica attraverso il riflesso argenteo, grigio-azzurro del corso d’acqua fermo, immobile nella luce smorzata del tramonto che rimanda a una realtà più materica e concreta, più palpabile anche negli oggetti a lato, segno di linee e forme decise a prendere corpo a poco a poco sulla tela.

L’informale

Tra il 1956 e il 1966 Moreni vive e lavora tra Parigi e Palazzo San Giacomo a Russi nel ravennate eletto come suo atelier temporaneo di pittura avvicinandosi  al movimento dell’Informale di matrice francese per giungere lì probabilmente al culmine della sua fama ed esporre nelle principali gallerie europee. La sua pittura si fa sempre più “emotiva”, coinvolgendo l’esistenza tutta in una espressione “Informale” della medesima: grandi pennellate,  segni potenti e materici, colori vivaci nel confronto, infine sempre, con la natura in un ritorno alla realtà seppur su matrice astratta. Un medesimo paesaggio appare qui per esempio, reincarnarsi su due tele parallele , nel grigio prima e nel verde poi, facendosi sintesi di un’immersione totale nel colore e, insieme, di un gesto astratto per la pittura.

Cartelli e paesaggi: lo scontro violento con la natura


L’insorgere di un grido “ primario e primordiale, incombente e opprimente, terribile nella sua forza e raffigurato con tutta la sua carica psico-fisica”, tale l’essenza di questa nuova strada e insieme la svolta radicale  che a partire dal 1959-60 assume la pittura di Moreni elaborando una nuova poetica dei “paesaggi” e dei “cartelli”. I primi incarnano quell’urlo silenzioso e inaudito dell’umano che come emergenza psichica istintiva non può essere taciuto né detto ma riesce a tradursi solo in pura traccia e segno materico. I secondi appaiono come messaggi criptati lanciati al vento nell’isolamento della campagna oppure nascosti dentro una bottiglia di vetro;  la denuncia di un qualcosa che viene meno o disintegra nella realtà e nella storia a lui contemporanea in una tendenza  progressiva verso la regressione pittorica degli anni successivi.

“Immagine bestiale”, (1960)

Violento, incontenibile come l’estrapolarsi di un getto di colore nell’irreversibile potenza del nero, appare il paesaggio in questa tela, quasi in una rottura violenta alla memoria di un dripping pollockiano. Colore-impronta, colore-emozione ad effetto sulla tela, colore come vita e morte insieme interfacciate, celate tra il nero, il grigio e l’ocra oltre i confini sanciti  dalla cornice, oltre la fine della superficie bidimensionale del quadro simile a una ferita, un grido o semplicemente un’insorgenza di materia e vita.

 

“Un cielo cattivo” (1957)

E’ una terra vista come globo circolare, sferico nella forma della tela da Moreni scelta per questa “emergenza” di paesaggio dove  tensioni ed energie insieme attrattive e repulsive la attraversano. E’ “un cielo cattivo”, una terra malata, una commistione di colori   a raffica dove il nero ancora la fa da padrone frammista ad ansiti di bianco e schegge di rosso e di blu. E’ la complessità di forze incontenibili dentro una cornice spingendosi fuori in un’emergenza materica non figurativa ma neanche completamente  astratta. E’ qualcosa che inciso, lacerato o scritto vuole manifestarsi, gridare o rendersi visibile in una traccia puramente pittorica. 

Cartello “non calpestare il prato”(1964)





Su uno sfondo grigio e denso, su una copertura totale di vernice come del reale esistente un cartello quasi banksiano appare nella scitta incisa e colante in bianco: “ non calpestare il prato”, non gettare via fiori invano, non calpestare la vita sulla terra, non rovinare o distruggere ogni spazio vivente intorno a te, e ancora, lascia uno spazio di bianco e di vuoto, una pennellata di luce, una scia aperta di bianchezza e di candore per i cuori e le menti quando la realtà intorno sembra sempre più oscurarsi, essere ingoiata e scomparire.

“Agonia di un campo” (1969)
















Come afferma Moreni “il rapporto tra il pittore e la terra che ha scelto è un rapporto d’amore” alludendo alla terra romagnola dove Moreni decide di insediarsi per gran parte della sua vita, qui prescelto come focus per l’intero percorso pensato in cinque tappe museali. Tuttavia , l’artista rileva anche nella fase più regressiva della sua produzione come sempre più la realtà appaia ai suoi occhi  precaria o destinata  alla dissoluzione, i campi plastificati o fatti esplodere dalla chimica dell’inquinamento e la natura sempre più soggetta a distruzione.

“Travolto dall’ ammoniaca e dall’acetone dell’Anic” il campo di Moreni qui rappresentato “esplode e muore” ma dileguando sulla tela immensa della parete irradia ancora di luce propria o riflessa. Dissolve dal verde iniziale della natura al bianco livido dell’irradiazione, sfuocato in una luce quasi irreale e metafisica con qualche tocco di ocra e di pastello. Dal livore conclamato della terra a una levità e leggerezza inaspettate l’artista chiude così in un cerchio perfetto la sua visione della natura da quella verdeggiante e espressionista della tela iniziale a questa eterea e  dileguata dell’ultima versione.

martedì 2 settembre 2025

Mohamed Bourouissa: Communautés ( al Mast di Bologna)

 


















“Communautés”come titola la mostra di Bourouissa volge la propria attenzione ai margini, alle periferie urbane, alle comunità viste nel loro risvolto liminale rispetto all’epicentro del potere, là dove le minoranze non rappresentate risiedono, coloro che solitamente restano invisibili, non visti o senza voce nella società contemporanea. Tale diviene il fulcro di interesse del lavoro di Mohamed Bourouissa  artista di origine algerina, cresciuto in Francia,stabilito a Parigi, esposto attualmente al Mast di Bologna fino alla fine di settembre.  La retrospettiva ripercorre un ventennio della sua carriera accostando  video, fotografia, scultura, collage e stampa in 3D in tre grandi progetti  portati avanti nel corso degli anni e il più recente, inedito “Hands” esposto a Bologna per la prima volta al pubblico. Imprescindibile resta per l’artista franco-algerino, al di là del linguaggio scelto, fotografico, scultoreo o performativo, una riflessione critica sulla società contemporanea toccando temi fondamentali come le città, le migrazioni di massa, il conflitto tra società e individuo nei singoli rapporti di potere, infine la rappresentazione o auto-rappresentazione di sé.   Non si tratta di una fotografia documentaria_ la pura e semplice documentazione oggettiva di realtà_ ma di una “messa in scena fotografica”, di una finzione costruita attraverso il coinvolgimento attivo dei soggetti rappresentati nell’ottica “partecipativa” di qualcosa che si realizza o si rende visibile come accadimento di fronte ai nostri occhi. I soggetti non sono solo passivamente colti dal fotografo ma divengono attori di dinamiche sociali esposte o involontariamente svelate: le tensioni nelle banlieues parigine, la parata di “cow boys” neri a Filadelfia per “Horse day”, infine auto-ritratti che simulano selfie di giovani francesi delle nuove generazioni .




HORSE DAY ( 2013-19)


















Il “Fletcher street Urban riding club”  è una scuderia sociale fondata nel 2024 a Filadelfia dalla comunità afroamericana locale per prendersi cura dei cavalli, coltivare la passione dell’equitazione e offrire ai giovani neri un’alternativa alla strada legittimando così il loro operato. “Horse day” esposto nelle prime sale del Mast nasce come l’esito di una competizione-performance equestre nel corso di una giornata speciale nel 2014: una parata di cow boys con costumi e bardature dei cavalli realizzati per l’occasione cui sono seguiti un film documentario e una serie di sculture in 3D. Nella prima sala del Mast locandine multicolore dell’evento tappezzano le pareti del museo come all’epoca ricoprivano quelle della città accompagnate dalle musiche originali composte per la parata e da alcuni sfarzosi costumi  argentei e luccicanti creati per i cavalli.  Collage e particolari sculture digitali  invadono lo spazio espositivo di “Horse day”: si tratta di stampe fotografiche dei partecipanti o di momenti salienti della giornata su pezzi di carrozzerie d’auto evocando ancora una volta la combinazione tra tecnologia e l’industria nella società attuale. Su un’altra immensa parete un montaggio colorato di una serie di schizzi, disegni preparatori, foto o altri piccoli collage documentano le fasi intermedie simile a un diario di bordo con i passaggi  che hanno condotto al montaggio  sull’acciaio in ampia  scala.



























“Unicorn” sovrappone  fotografie dai colori beige e ocra su una lastra argentea, volutamente “spiegazzata”, soggetta a una sfocatura intenzionale dove i bordi si confondono  mentre  un destriero bianco e bardato è condotto da un cow boy nero che chiaramente sovverte lo stereotipo della tradizione proveniente dal vecchio west americano per riappropriarla, stropicciarla appunto come un foglio usato e riutilizzato in maniera differente sulla superficie scintillante delle immagini.

“Ride Day 2” ( 2019)

 















E’ un affresco post-moderno apocalittico e industriale fatto di parti di carrozzeria in acciaio, pittura per auto, vernice spray e stampe digitali sulle medesime. “Ride Day”occupa tutta la parete della galleria estendendosi nel suo montaggio idiosincratico, fatto di pezzi d’auto di recupero, foto stampate e altri frammenti: i nuovi cow boys afroamericani si intravvedono tra le linee insieme alle bardature dei cavalli e le scintille d’argento che a pezzi disparati si ricompongono nel collage di Bourouissa. Allo stesso modo “Windows” sono finestre aperte sulla vita della comunità nera, individui del tutto sconosciuti e ignorati dalla maggior parte i cui ritratti meravigliosamente umani si rivelano come in un negativo fotografico su vecchie portiere d’auto quasi si trattasse di un’immagine rubata da uno specchietto retrovisore. Là, in primissimo piano, uno spaccato di vite, sguardi svelati nel contrasto del bianco e del nero. Infine, prepotentemente presente al centro della sala compare “The phone ” scultura prodotta da una stampa in 3D in resina e fibra di vetro: una presenza oscura, minacciante nella posa in una ulteriore rivisitazione dello stereotipo bianco dello yankee americano. 


PERIPHERIQUE 

 “Peripherique”_ tale il nome della tangenziale parigina che separa la città dai quartieri  periferici limitrofi _   appare come una serie “aperta” che il fotografo ha continuato a rielaborare con nuove immagini come l“Alyssia” e “Dinosaure” rilanciando l’attualità del progetto. Si tratta di volti, ritratti, messe in scena fotografiche realizzate da Bourouissa per un progetto portato avanti negli anni a partire dalla rivolta delle banlieues francesi nel 2005.

“Alyssia” (2022)



Questa giovane influencer franco-algerina  di “Peripherique” sceglie di auto-determinarsi attraverso una precisa immagine di sé: giovane libera, disinibita, senza veli sfatando gli stereotipi di rappresentazione della donna nella cultura islamica.  Decide di attraversare quel confine sottile che rende non solo visibili ma anche capaci di imprimere un segno, lasciare una traccia permanente sul destino di coloro con cui si entra in contatto. Lei, giovane araba dall’impronta occidentale sceglie di riappropriare la propria identità, corpo e vita, “blessed” come si autodefinisce nel tatuaggio impresso a grandi caratteri sul suo braccio . Da sé stessa legittimata decide di sfidare nella sua rivendicazione di libertà e potere al femminile i cliché sulla cultura araba in occidente così come l’oppressione patriarcale da essa perpetuata.

“La Republique” (2006)


Nelle periferie di Parigi, in quella zona ibrida ai bordi esterni del centro di potere delle elite lo scontro tra giovani di una  gang è messa in scena da Bouruissa evocando le rivolte nelle banlieue avvenute  nel 2005. Il titolo dell’immagine “Republique” dove in primo piano i giovani rivoltosi sventolano una bandiera della repubblica francese evoca, citando implicitamente la celeberrima opera di Delacroix , i nuovi esponenti di questo paese post-coloniale da generazioni frutto di migrazioni, metissage, e contaminazioni tra le diverse culture, nello specifico quella magrebina e quella francese dove ancora non sembra essersi compiuta l’attesa e imprescindibile integrazione. L’immagine intende lasciare spazio e a queste frange urbane di giovani francesi di discendenza araba che chiedono voce, visibilità, un volto in una società che ancora li rende invisibili o inesistenti.

“Dinosaure” (2022)

In uno scenario quasi idillico che rimanda a una visione paesaggistica di ispirazione impressionista una famiglia francese di origine araba è vista nello splendore del momento presente sullo sfondo di un parco fiorito di alberi e cespugli verdi. Tra tradizione e modernità il velo che ricopre il capo della madre proveniente dal mondo arabo si oppone ai capelli lunghi e sciolti delle giovani figlie dai giubbotti di pelle nera e le sneakers ai piedi simili a qualsiasi altra adolescente francese della stessa età. La visione è irradiata di una luce di  aspettativa e ottimismo verso un futuro di coesistenza pacifica  nel difficile equilibrio tra occidente e islam in Europa, tra retaggi gerarchici o repressivi del passato e nuova libertà individuale ancora da conquistarsi.

 SHOPLIFTERS


La serie di fotografie originariamente scattate dal proprietario di un negozio di Brooklyn con una semplice polaroid mostrano in una messa a nudo diretta e frontale i volti di individui  sorpresi a rubare nel supermercato, messi in posa insieme alla refurtiva una volta colti dalla telecamera di sorveglianza. La spaventosa banalità dei beni sottratti come biscotti, uova o birra  insieme ai volti inermi degli indigenti colti dal sistema di sorveglianza svela, in realtà, dietro l’apparente banalità del gesto la violenza e la miseria insite sotto la superficie della società consumista americana. Ne emerge una criminalizzazione disumana della povertà fisica e morale da parte di una società accusatrice e senza pietà.  Uomini e donne della strada sono mostrati in primissimo piano in una messa a nudo fredda, opaca e senza veli che sottolinea ancora di più le contraddizioni ai margini dell’illusorio benessere e del vano spreco  nel sistema capitalistico occidentale .

 HANDS

Immagini provenienti dal passato, in particolare dettagli di corpi, volti, mani o gesti ricompaiono ristampate sul plexiglass e poste sullo sfondo di una griglie metallica nell’inedita serie “Hands” presentata per la prima volta al Mast di Bologna. Si tratta di trasformare o riappropriare ancora una volta nell’ottica di Bouruissa quello che del passato non può sussistere in sé stesso come immutabile ma che invece è soggetto, come la vita stessa, al cambiamento e all’inevitabile trasformazione. L’artista citando Artaud oppone alla materia intesa come presenza viscerale dei corpi la griglia vista come luogo di oppressione e soffocamento dell’individuo. Vediamo nella serie esposti in primo piano profili di volti oscurati, poi mani che si divincolano e cercano movimento e libertà, infine volti cupi, schiacciati e oppressi dalla prigionia. Giungono a noi come grida di libertà, simili ad asserzioni autentiche e incontenibili dei corpi contro il soffocamento oppressivo della struttura tale  la griglia del potere o della legge. Sullo sfondo i  colori elettrici, ora violacei o rossicci, ora blu allucinanti e grigiastri. Perché Bouruissa in tutti i suoi lavori, dalla fotografia, alla scultura  all’installazione nelle sue molteplici sperimentazioni,  non smette mai di parlarci delle tensioni insite nella società contemporanea, dei rapporti di potere tra singolo e comunità, tra centro e periferie, infine di giovani generazioni alla ricerca di legittimità e nuove società dell’integrazione ancora da definirsi.